L’Associazione IRFI “Italia Romania Futuro Insieme” aderisce alla Manifestazione Nazionale per la Vita: appuntamento a Roma il 20 maggio 2023 alle ore 14:00, a piazza della Repubblica da dove prenderà il via il corteo. Sfileremo per le strade di Roma Capitale, per testimoniare la difesa e la tutela della vita di ogni persona umana e di tutte le persone umane, in ogni fase e condizione, dal concepimento fino alla sua fine naturale. Scegliamo la Vita! Cristo è risorto!
Gesù, presentando ai discepoli un pane spezzato (almeno ciò che ai sensi appariva pane), ha detto loro «prendete e mangiate: questo è il mio corpo», come se ciò che appariva ai sensi come pane non fosse in realtà pane, ma fosse quella sua carne, che in precedenza aveva detto dover essere mangiata per avere la vita eterna? Gli apostoli hanno veramente mangiato la carne del Signore? Certamente. Ma in che modo?
I Padri del Concilio di Trento hanno risposto: spiritualiter, sacramentaliter (Denz.1648) e realiter (Denz.1658). Spiritualiter vuol dire che è stato un mangiare spirituale, un alimentarsi spirituale; sacramenaliter vuol dire misterioso o mistico, ossia razionalmente incomprensibile e verbalmente inesprimibile; realiter vuol dire fisicamente o materialmente, perché la carne di Cristo «è vero cibo» (Gv 6,55) dell’anima e del corpo.
Come può costui darci la sua carne da mangiare?(Gv 6,52)
Problemi del dialogo ecumenico
Il dialogo ecumenico con i luterani si è fermato attorno a tre punti essenziali di quanto Cristo ha voluto per la nostra salvezza: l’eucaristia, la Messa, il sacerdozio. È presente il pastore, il maestro, il profeta. Manca il sacerdozio come potere di offrire il sacrificio della salvezza e nutrire la comunità cristiana col cibo eucaristico.
Iniziamo con la questione dell’eucaristia. Essa prevede, come si sa, la consumazione di un cibo che rappresenta Cristo presente nella comunità radunata nel suo nome. Ma come è da intendere questo mangiare e come è da intendere la presenza di Cristo? Nella comunione eucaristica il mangiare fisico si associa ad un nutrirsi spirituale ed è la condizione di un nutrirsi spiritualmente.
Mangiando un qualcosa di materiale, assumiamo un beneficio spirituale. Non fa nessun problema il sapere che la vita fisica è mantenuta in essere dal nutrimento fisico. Quello che ci domandiamo è come può un nutrirsi fisico causare nel nostro spirito una vita soprannaturale e divina?
Comprendiamo che il nostro spirito si arricchisca nella virtù e nella sapienza nutrendosi di concetti, pensieri, intenzioni, propositi e cose spirituali, come l’apprendimento della verità, il gusto della bellezza, la considerazione di esempi di virtù, l’assimilare l’insegnamento di un maestro, l’imparare una lezione, lo studio della filosofia.
Ma come può il mangiare la carne di un uomo assicurarci la vita eterna? Tutt’al più alimenterà la nostra vita fisica. Ma poi questa prospettiva ci appare orribile e gravemente peccaminosa.
Come è possibile che mangiando l’ostia noi mangiamo la carne di Cristo? Assumiamo la materia del suo corpo? O non piuttosto semplicemente assumiamo una porzione di pane, che poi viene normalmente digerito come qualsiasi altro cibo? Gli accidenti del pane agiscono e patiscono secondo le normali leggi del metabolismo organico, sicchè la materia dell’ostia assume la forma della materia vivente del nostro corpo, come qualunque cibo che viene metabolizzato nel normale processo dell’alimentazione. Tuttavia la fede ci dice che la sostanza dell’ostia, che è la sostanza del corpo stesso di Cristo, alimenta invece l’anima e la fa crescere nella grazia.
I Padri del Concilio di Trento hanno risposto: spiritualiter, sacramentaliter (Denz.1648) e realiter (Denz.1658). Spiritualiter vuol dire che è stato un mangiare spirituale, un alimentarsi spirituale; sacramenaliter vuol dire misterioso o mistico, ossia razionalmente incomprensibile e verbalmente inesprimibile; realiter vuol dire fisicamente o materialmente, perché la carne di Cristo «è vero cibo» (Gv 6,55) dell’anima e del corpo. Alcuni Santi per un certo tempo si sono nutriti della sola Eucaristia.
Altro problema: come può il sacerdote nella Messa con le parole della consacrazione rifare o fare ciò stesso che ha fatto Cristo nell’ultima Cena? Come possono quelle ostie preparate dalle suore o dai carcerati diventare il corpo di Cristo, sicchè noi nella comunione non mangiamo del pane, se non in apparenza, ma in realtà mangiamo il corpo di Cristo?
Il Concilio di Trento dice che nella comunione noi mangiamo, insieme con gli accidenti del pane, la sostanza del corpo di Cristo e, per concomitanza, la sostanza del sangue accogliendo nella nostra anima la sua anima e la sua divinità (Denz.1639), sicchè Cristo in Persona diventa interiormente presente in noi.
Ma quando il Concilio parla della distinzione fra la sostanza e le specie sensibili del pane (Denz.1636, 1642), che cosa intende dire? Come fa a fare questa distinzione? La sostanza del pane è il pane? O può esistere la sostanza del pane senza il pane? Quando noi diciamo «il pane» noi intendiamo la sostanza con i suoi accidenti.
Non riusciamo ad immaginare la sostanza senza gli accidenti e gli accidenti senza la sostanza, tanto che gli empiristi inglesi da Ockham fino a Bertrand Russell e i buddisti dicono che la sostanza non è altro che la collezione unificata e significata sotto uno stesso nome di un insieme coerente di accidenti, ovverosia dati sensibili, che non hanno bisogno di un sostegno o sostrato misterioso o invisibile – la cosiddetta «sostanza» – che li sostenga o li supporti; stanno in piedi da soli!
Se ci sono quei dati, c’è la sostanza; ma se non ci sono, è assurdo ipotizzare la sostanza da sola senza di essi. Come facciamo a sapere che dietro o sotto gli accidenti c’è la sostanza, se essa è per definizione nascosta? Pare che gli empiristi abbiano ragione. Certo, ammettono anche loro che il gusto del pane non è il pane, perché anche il colore del pane è nel pane, eppure è diverso dal gusto. Però, quando sentiamo qualcosa che ha il gusto del pane, diciamo: questo è pane!
Tuttavia bisogna dire che gli empiristi sono dei sensisti, che non sanno che cosa è l’intelletto e di che cosa esso è capace. Usano l’intelletto per negare le sue proprie funzioni in quanto distinte da quelle del senso. Infatti il senso coglie gli accidenti, ma non è capace di intendere la sostanza nella sua intellegibilità come ente sussistete da sé, materiale o spirituale che sia. Ora però siccome l’intelletto tutto quello che concepisce lo concepisce a modo di sostanza, tutto quello che riescono a concludere è di ipostatizzare i dati del senso, cadendo nel materialismo.
In realtà persino il cane riconosce il suo padrone; persino gli uccelli vedono il contadino e scappano. Il che vuol dire che anche l’animale, pur non essendo dotato di intelletto, sa in qualche modo riconoscere la sostanza o la persona, anche se è vero che è facile ingannarli: basta lo spaventapasseri per tener lontano gli uccelli.
Ora è vero che nessuno mai avrebbe pensato che fosse possibile l’esistenza di una sostanza senza i suoi accidenti o di accidenti senza la loro sostanza, se non vi fossimo stati obbligati, in nome della fede, dal mistero dell’eucaristia, che si trasformerebbe in un’assurdità se non ammettessimo, col Concilio di Trento, che non nel pane, ma sotto le specie del pane nell’eucaristia è contenuto Cristo stesso: corpo, sangue, anima e divinità.
«Sotto le specie del pane» non vuol dire che la sostanza sia nascosta come il corpo è nascosto sotto l’abito che viene indossato, per cui basta togliere l’abito che si vede il corpo nudo. Anche se San Giovanni della Croce parla a tal riguardo di «nuda sostanza», è chiaro che si tratta di una metafora. È chiaro che eliminare gli accidenti vuol dire distruggere la sostanza. Un pane marcito non è più pane. Ma nell’eucaristia non c’è questione di corruzione degli accidenti. Se le specie si corrompono, non vuol dire che solo adesso non c’è più la sostanza del pane, ma che adesso non c’è più la presenza del corpo di Cristo. E per questo le ostie corrotte non si conservano più nel tabernacolo, ma vengono eliminate.
L’ostia consacrata non è quindi semplice pane che significa il corpo di Cristo, come credeva Calvino; non è pane nel quale è presente Cristo, come credeva Lutero, ma è veramente il corpo di Cristo sotto le specie sensibili del pane, come insegna il Concilio di Trento:
“sub specie illarum sensibilium” (=species sensibilium panis) “continetur” (Denz.1636); Cristo che “in sanctissimo sacramento eucharistiae continetur” (Denz. 1651). Dice inoltre che “in divino sacrificio, quod in Missa peragitur, idem Christus continetur et incruente peragitur” (Denz.1743).
Dire, come dicono alcuni cattolici, che il Corpo è nel pane è l’eresia di Lutero dell'”impanazione”, per la quale il pane resta pane, solo che Cristo è nel pane o della “consustanziazione”, per la quale la sostanza del pane non si converte nella sostanza del corpo, ma le due sostanze restano assieme l’una accanto all’altra. La presenza reale della quale parla Lutero non ha quindi nulla di speciale per l’eucaristia, ma non è altro che la presenza di ubiquità di Dio in tutti i luoghi dell’universo o tutt’al più la presenza della sua grazia nell’anima del fedele.
Quando parliamo dell’eucaristia dobbiamo quindi evitare di parlare di “pane”, ma dobbiamo parlare, come fa la Chiesa, di specie o accidenti del pane. Quello che sembra pane, pane non è, ma è il corpo del Signore. Non dobbiamo temere di dire che il pane si è convertito nel corpo del Signore, sicchè restano solo le apparenze sensibili del pane. Sentiamo il gusto del pane, ma ciò che mangiamo è la carne di Cristo.
Si può però parlare di pane eucaristico o pane consacrato in senso metaforico, sottintendendo sempre la transustanziazione, ed intendendo che si tratta di “pane” nel senso che è un cibo. Dice bene il famoso inno di San Tommaso: Panem de coelo praestitisti eis, omne delectamentum in se habentem.
Anche Gesù dice “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,58). Se Cristo si esprime in questo modo, le sue parole non vanno intese nel senso che egli voglia identificare sic et simpliciter il pane dell’ultima Cena col suo corpo, ma intende dire che il cibo che darà è la sua carne; e del resto è metafisicamente impossibile che una sola sostanza sia simultaneamente due sostanze. Un pane è un pane e un corpo umano è un corpo umano.
Non ha seppur senso ipotizzare che un pane possa mescolarsi con un corpo umano come il caffè si mescola col latte per formare il caffelatte. E non ha neppur senso immaginare che il corpo di Cristo sia nel pane come l’uva passa nel panettone. Cristo non sublima o divinizza il pane, ma fa ben di più: lo fa diventare Lui stesso, senza che esso abbandoni le sue specie sensibili.
E’ solo all’ultima Cena che appare chiaro che cosa qui Gesù intende dire. Così nell’ostia consacrata noi vediamo adesso Cristo sotto le apparenze del pane, nella speranza di vederlo un giorno svelatamente in cielo.
Non che il senso sia ingannato; il senso vede la bianchezza del pane e vede la verità; il fatto è che il senso non può vedere la sostanza, che è visibile solo dall’intelletto e questi per fede sa che la sostanza non è più quella del pane, ma quella del corpo di Cristo, presente, peraltro, non come sostanza esistente attualmente in cielo, ma a modo di sostanza (substantialiter).
Se il pane restasse pane, come nella Comunione eucaristica noi potremmo ricevere la vita eterna? Come può un cibo materiale donare la vita eterna? Se l’ostia ingerita dal fedele gli dona la vita, ciò è possibile perché sotto le apparenze del pane è Cristo stesso che agisce con la sua grazia. Se la carne di Cristo dona questa vita è perché è la carne di Dio. Il fedele mangia una carne ipostaticamente unita al Verbo e per questo, come dice Paolo, assimila la sua stessa esistenza a quella di Cristo. Come osserva acutamente Agostino, mentre il cibo terreno diventa la carne di colui che si ciba, il cibo eucaristico trasforma in se stesso colui che si ciba. Ed è logico che chi si accosta alla comunione sia in grazia, giacchè colui che si nutre dev’essere necessariamente un vivente; non si può dar da mangiare a un morto.
Noi pastori e predicatori dobbiamo dire queste cose ai fedeli, anche a costo di scandalizzare o di sembrare di dire cose assurde o di esser presi per matti o per lefevriani. Ma dobbiamo aver fiducia di poter esser creduti, così come da 2000 anni esistono i cattolici ed esisteranno fino alla fine del mondo, e dobbiamo temere più il giudizio di Dio che quello degli uomini o dei rahneriani o dei luterani.
La messa è banchetto e sacrificio
Gli equivoci del dialogo con i luterani appaiono chiarissimi anche per quanto riguarda il campo della liturgia. La riforma del rito della Messa avviata nel 1970 da San Paolo VI è stata in se stessa buona, opportuna ed utile anche ai fini di un confronto ecumenico con la Cena luterana. Ma anche qui a guastare le cose si sono intromessi i modernisti, i quali hanno cominciato a celebrare ed interpretare il novus ordo, in un modo falso, avvicinandolo troppo alla Cena luterana, con la comprensibile reazione sdegnata dei lefevriani, i quali già avevano interpretato, sia pur errando, il novus ordo come filoluterano.
La pastorale modernista della Messa, organizzata al suono delle trombe da 60 anni, dandoci ad intendere che era l’applicazione della riforma conciliare, ha completamente fallito. Nessuno oggi fa più l’adorazione eucaristica, molti diventano protestanti conservando il nome di cattolici e i fedeli alla Messa sono in continua diminuzione. Alcuni, come Andrea Grillo, credono che fra impanazione e transustanziazione si può scegliere come si preferisce. Quei pochi che restano prendono la Messa come fosse un banchetto, un’assemblea sindacale, un incontro fra amici, una festa da ballo, una manifestazione di esaltati o uno spettacolo televisivo, peraltro non paragonabile alle rappresentazioni della Scala di Milano o a quelli di Costanzo. La comunione è assimilata all’assunzione di una compressa contro il mal di denti o l’obbligatoria assunzione del pasto quando si partecipa ad un banchetto. I lefevriani attirano gli esteti, gli esoteristi e i nostalgici.
Molti oggi, influenzati dal protestantesimo liberale, non ammettono più che Cristo in obbedienza alla volontà del Padre, abbia compiuto un sacrificio espiatorio e soddisfattorio e, non avendo l’audacia di colpire apertamente il dogma della redenzione del Concilio di Trento, se la prendono col povero Sant’Anselmo, come se la dottrina della redenzione fosse un’invenzione della sua mentalità feudale del Signore che vuole e deve salvaguardare il suo onore, aver soddisfazione per l’offesa ricevuta o del Padre adirato e taccagno che vuole che gli sia pagato il debito, quando in realtà la dottrina tridentina non è che una ripresa di quella anselmiana, anche se liberata dal suo razionalismo.
Coloro che invece con Lutero riconoscono il sacrificio redentore di Cristo e non riducono Cristo al semplice profeta martirizzato e riconoscono giustamente che il sacrificio di Cristo come sacrificio divino, è uno soloe sufficientissimo per la redenzione di tutta l’umanità, vedono erroneamente la Messa come un sacrificio soggettivo compiuto dal celebrante che si aggiunge a quello di Cristo quasi a completarlo. Lutero aveva ragione a respingere con sdegno questa idea errata. Il suo grave sbaglio è stato che credeva che la Messa sia questo.
Cristo, secondo lui, all’ultima Cena, non ha offerto nessun sacrificio, ma ha voluto semplicemente rinnovare l’Alleanza facendo l’ultimo pasto pasquale con i suoi. E noi non facciamo altro che commemorare questa commovente ultima Cena d’addio.
Invece no. Occorre condurre i fratelli luterani alla consapevolezza di fede che la Messa è sì memoria dell’ultima Cena, ma è essenzialmente e fondamentalmente, per istituzione di Cristo, come dice il Tridentino, “sacrificium, quo cruentum illud semel in cruce peragendum repraesentatur eiusque memoria in finem usque saeculi permaneret” (Denz.1740).
Capisco che l’espressione tradizionale “rinnovazione” non è delle più felici. Essa oggi è stata abbandonata per favorire l’avvicinamento ai protestanti. Infatti è vero che il sacrificio della croce non è come rinnovare la patente d’auto o un qualcosa che abbia bisogno di essere svecchiato dal sacerdote che dice Messa, quasi che il sacerdote vi aggiunga qualcosa, lo aggiorni o lo migliori, perchè Cristo è sempre nuovo, è sempre vivo e continua sempre nella Messa ad offrirsi al Padre e ad intercedere per noi come sommo sacerdote. Per cui ciò che facciamo noi sacerdoti (hoc facite in mei commemrationem), lo facciamo in persona Christi.
Il Concilio parla piuttosto di repraesentatio dell’unico sacrificio di Cristo, il che vuol dire renderlo presente ed operante fra noi, nello spazio e nel tempo, in tutte le Messe del mondo con la sua efficacia salvifica. E ciò avviene per il potere che Cristo ha dato a noi sacerdoti. L’espressione del Concilio era più ecumenica di quella di rinnovazione, perché in essa appare evidente l’unicità del Sacrificio di Cristo, che vien semplicemente reso presente sulla terra nella storia del mondo.
In questo senso si può e si deve dire che la Messa è un sacrificio (sacrum facio) e che noi sacerdoti offriamo un sacrificio, ossia offriamo al Padre Cristo eucaristico vittima (hostia, korban) del sacrificio che noi sacerdoti celebriamo pronunciando le parole della consacrazione, che rendono sacramentalmente e realmente presente Cristo sull’altare sotto le specie eucaristiche, cosicchè noi offriamo sotto queste specie Cristo stesso al Padre in forza del fatto che Cristo in cielo continua ad offrire se stesso al Padre ed intercede per noi, sicchè noi sacerdoti ripresentiamo in modo incruento a noi stessi e al popolo l’unica offerta che Cristo ha fatto di se stesso una volta per tutte al Padre per noi sulla croce 2000 anni fa e noi stessi insieme col popolo offriamo per la nostra salvezza Cristo sacramentato al Padre.
Si tratta dunque dell’unico e medesimo sacrificio di Cristo; cambia solo il modo della sua presenza: presente in modo cruento agli astanti 2000 anni fa; presente a tutti i fedeli fino alla fine del mondo in modo incruento in ogni Messa che viene celebrata.
La sostanza del corpo di Cristo adesso in cielo ha i suoi accidenti, mentre qui in terra essa è presente senza gli accidenti in tutti gli altari del mondo fino alla fine dei secoli. Esiste quindi una sola sostanza con i suoi accidenti ed esistono molte presenze di questa stessa sostanza tra noi nella vita presente. Questa presenza come va concepita? Qui noi siamo obbligati ad arricchire il nostro concetto di presenza.
Secondo il nostro solito modo di dire, noi diciamo che una persona ci è presente o perché sta davanti a noi o perché ne abbiamo una rappresentazione mentale (il concetto) o perché la vediamo rappresentata in un’immagine. Ora Gesù nel suo corpo, sangue, anima e divinità nell’eucaristia ci è presente in nessuno di questi modi; non ci è presente personalmente in carne ed ossa così come è in cielo; non è che Cristo risorto scenda dal cielo per essere tra noi, perché un corpo occupa un solo luogo e non può essere simultaneamente in luoghi diversi, non si può moltiplicare. Non ci è presente mentalmente nel concetto che abbiamo di lui. Non ci è presente come ci è presente alla televisione il presidente Mattarella o la Meloni.
Come allora ci è presente? Si tratta di una presenza, effetto dell’onnipotenza divina, sconosciuta alla nostra ragione, prima che ne venissimo a conoscenza apprendendo il mistero dell’eucaristia. Si tratta di una presenza per la quale la cosa, in questo caso Cristo, è presente benché sia assente. Sembra una contraddizione, ma non è così. Come si risolve la contraddizione? Cristo ci è realmente e sostanzialmente presente sotto i veli eucaristici. Ma nel contempo ci è assente in quanto è in cielo, dicendo che qui in terra la sostanza è senza gli accidenti, che sono sostituiti da quelli del pane e del vino, mentre in cielo ha i suoi accidenti.
La Chiesa chiama reale questa presenza, per distinguerla da quella intenzionale e da quella figurativa di cui sopra. Ma si badi bene: reale ma senza gli accidenti. Per questo i teologi dicono presenza sostanziale, non in quanto sostanza con i suoi accidenti, ma a modo di sostanza.
Lutero ci teneva alla presenza reale di Cristo nell’eucaristia, ma, non accettando l’idea di una sostanza senza accidenti, era obbligato a concepire questa presenza come se nell’eucaristia ci fosse la compresenza del pane e del Corpo di Cristo come due sostanze con i loro accidenti e quindi non distingueva il corpo di Cristo in cielo da quello presente nell’Eucaristia.
Ne veniva la conseguenza che noi nella comunione non mangiamo la carne di Cristo, ma del pane nel quale c’è Cristo. Ma a questo punto, qualunque nostro pasto assunto in Cristo diventa un pasto eucaristico e non si vede più che necessità ci sia di celebrare un rito speciale, dal momento che ogni pasto che il cristiano consuma, lo consuma sempre alla presenza del Signore, come ci invita a fare San Paolo (I Cor 10,31).
Ma Paolo distingue molto bene questo mangiare comune dal mangiare il corpo del Signore (I Cor 11, 26-29). Per questo, bisogna persuadere i nostri fratelli luterani che il pasto eucaristico non è un semplice mangiare in compagnia di Cristo, ma è un vero e proprio mangiare la carne di Cristo e questa cosa non è possibile se non accettando il dogma della transustanziazione.
Quindi, sotto due modalità di presenza, con accidenti e senza accidenti, del sacrificio della croce si può parlare di due distinti sacrifici: quello celeste ed unico di Cristo risorto alla destra del Padre e quello di noi sacerdoti, molteplice su questa terra, nello spazio e nel tempo, effetto, espansione e ripresentazione di quello, che celebriamo noi sacerdoti nella vita presente, giacchè c’è da tener presente che se noi agiamo in persona Christi, tuttavia non siamo Cristo.
Noi prestiamo a Lui la nostra voce, le nostre mani, i nostri gesti, la nostra mente, il nostro cuore; ma è chiaro che il sommo ed unico Sacerdote e Celebrante è Lui. Come mai Lutero non ha capito questo, fantasticando di chissà quale presunzione di noi sacerdoti di fare una cosa inventata da noi per completare e perfezionare quello che ha fatto Cristo?
La verità invece è che, accanto all’unico sacrificio che Cristo celebra di Se stesso in cielo, come estensione e ripresentazione da Lui voluta in terra del suo sacrificio, esiste una molteplicità di sacrifici, che sono le Messe celebrate da noi sacerdoti nel mondo. Noi sacerdoti, dal canto nostro, non facciamo niente che non sia quello che ha fatto Cristo e che ci ha ordinato di fare dandoci il potere di farlo, per cui semplicemente partecipiamo del suo sacerdozio, ma è chiaro che è Lui che come sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, sostanzialmente celebra la Messa ed ogni Messa, come è detto nella Mediator Dei di Pio XII. Noi non siamo che suoi umili e poveri ma reali strumenti della sua universale azione sacerdotale.
Possiamo inoltre far presente che l’idea, avanzata oggi da alcuni liturgisti, che con la Messa noi siamo presenti al sacrificio della Croce è senz’altro bella e plausibile, purchè però essa sottintenda che questa nostra presenza è resa possibile dal fatto che Cristo stesso crocifisso e risorto è realmente presente a noi sotto le specie eucaristiche.
Il sacerdote partecipa del sacerdozio di Cristo. Per questo esistono gradi del sacerdozio, dal diaconato all’episcopato. Per questo esiste un sacerdozio comune dei fedeli soggetto al sacerdozio ministeriale della gerarchia ecclesiastica fino al suo vertice, il Romano Pontefice. A Lutero sono sfuggiti tutti questi valori genuinamente evangelici e neotestamentari, perché ha ignorato il concetto di partecipazione, che invece è una categoria biblica fondamentale, come ha dimostrato il Padre Cornelio Fabro in una sua opera classica e magistrale[1].
Lutero ha limitato e appiattito la concezione della comunità cristiana alla sola dottrina che tutti sono fratelli ed uno solo è il Padre e Maestro, il Cristo. Ma Gesù non si è fermato a questa caratterizzazione della comunità. Egli ha stabilito gli apostoli, col compito di governare la comunità sotto la guida di Pietro. Lutero, trascurando questo aspetto essenziale, ha una concezione monca ed insufficiente della comunità cristiana; per cui occorre che noi cattolici rendiamo consapevoli i nostri fratelli luterani di questa lacuna.
Nella visione luterana del sacerdozio comune dei fedeli, il ministro del culto non è un sacerdote investito di un potere che il comune fedele non abbia, almeno in radice. Per questo Lutero, parlando della guida della comunità, abbandona il termine «sacerdote», che fa pensare a un potere aggiunto a quello del semplice battezzato, e preferisce notoriamente quello di «ministro» o «pastore». Da qui la sua idea che il ministro del culto non è sacramentalmente ordinato dal detentore di un grado superiore del sacerdozio, come il vescovo, ma è il semplice presidente dell’assemblea, scelto dall’assemblea, la quale è come tale il soggetto del culto e dell’azione liturgica.
Cristo ha istituito il sacerdozio all’Ultima Cena
Del tutto a buon diritto il Concilio di Trento ha detto che Cristo ha istituito il sacerdozio all’ultima Cena, giacchè l’essenza del sacerdozio consiste effettivamente nel poter fare quello che Cristo ha fatto ed ha ordinato di fare agli apostoli in sua memoria.
Con la celebrazione dell’eucaristia il sacerdote edifica la comunità cristiana, per la quale e con la quale offre al Padre Cristo immolato in sacrificio di espiazione, simboleggiato dall’agnello pasquale immolato per i peccati del popolo, essendo stata l’Ultima Cena la commemorazione della Pasqua prescritta da Mosè per ringraziare Dio per la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù egiziana e formare il popolo di Dio in pellegrinaggio verso la terra promessa.
Similmente il sacerdote, ministro di Cristo, nuovo Mosè, e pastore della comunità cristiana, il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, imbandisce il nuovo banchetto pasquale, distribuendo in cibo la carne della Vittima divina, Cristo agnello immolato, guidando il gregge di Cristo verso la patria celeste. Dunque, niente comunità cristiana senza il sacerdote che offrendo Cristo al Padre, la edifica col cibo eucaristico, la istruisce con la Parola di Dio e la purifica col sacramento della penitenza.
Il confessare i fedeli, ministero proprio del sacerdote, è un derivato dal poter celebrare la Messa, perchè la Messa serve per la remissione dei peccati e chi fa la comunione, la fa perchè è già stato perdonato da quella grazia che Cristo ci ha ottenuto a noi sacerdoti col sacrificio che noi celebriamo nella Messa e il cui potere di perdono si effettua per il nostro ministero di confessori. Il rifiuto luterano del ministero sacerdotale della confessione è conseguenza logica del suo rifiuto di ammettere la facoltà del sacerdote di celebrare la Messa come sacrificio.
Stante invece quello che ho detto circa il potere di consacrare il corpo e il sangue del Signore, come potere proprio del sacerdote, c’è da notare che chi si facesse sacerdote senza credere a questo potere, non avrebbe la vera vocazione, si farebbe sacerdote senza sapere quello che fa, fosse anche un vescovo (vedi gli anglicani), e la sua ordinazione sarebbe invalida. Immaginiamo il danno che farebbe un sacerdote di questo tipo. Ma dobbiamo pensare anche quali immensi benefìci il sacerdote santo assicura al bene della Chiesa e alla salvezza del mondo, come dimostra la storia bimillenaria del sacerdozio cattolico.
Stanti così le cose, ci rendiamo conto di ciò che manca alle comunità dei nostri fratelli luterani per vivere in pienezza quella comunione fraterna e con Cristo, che Cristo ha voluto per la nostra salvezza, quel Cristo del quale esse pure vogliono essere discepole e che vogliono come loro pastore.
La Cena luterana, memoriale dell’Ultima Cena, si edifica certamente anch’essa attorno alla presenza del Signore crocifisso e risorto, un Gesù che certamente è Figlio di Dio, maestro e pastore, ma non è Agnello immolato per la nostra salvezza e non è pastore divino che procura la vita eterna. C’è sì Cristo, ma non c’è tutto Cristo, Attendiamo da cinque secoli che questi fratelli accettino Cristo nella sua pienezza.
Stando così le cose, noi cattolici non possiamo celebrare assieme con i fratelli luterani la memoria liturgica dell’Ultima Cena, né possiamo ammetterli alla comunione eucaristica, finché essi non riconosceranno la vera natura del sacerdozio, il suo potere di operare la transustanziazione eucaristica e non riconosceranno la Messa come sacrificio propiziatorio, come lo definisce il Concilio di Trento (Denz.1743) celebrato dal sacerdote.
Se poi ci sono dei cattolici che sui punti suddetti la pensano come i luterani, dovrebbero sapere che le loro Messe sono nulle e semmai delle pie riunioni di devoti di Cristo, ma niente di più. Questo è un falso ecumenismo, che invece di convertire i luterani al cattolicesimo, trasforma i cattolici in luterani o quanto meno in modernisti.
Occorre dunque che su questi tre punti che ho segnalato: eucaristia, Messa e sacerdozio il dialogo con i fratelli luterani sappia trovare le vie e i modi per mostrar loro che se vogliono essere pienamente cristiani, obbedienti in tutto a ciò che Cristo ha voluto ed istituito per la sua Chiesa e per la salvezza del mondo, siano disponibili ad avere per queste cose un animo aperto ed accogliente.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 7 aprile 2023
Gesù, presentando ai discepoli un pane spezzato (almeno ciò che ai sensi appariva pane), ha detto loro «prendete e mangiate: questo è il mio corpo», come se ciò che appariva ai sensi come pane non fosse in realtà pane, ma fosse quella sua carne, che in precedenza aveva detto dover essere mangiata per avere la vita eterna? Gli apostoli hanno veramente mangiato la carne del Signore? Certamente. Ma in che modo?
I Padri del Concilio di Trento hanno risposto: spiritualiter, sacramentaliter (Denz.1648) e realiter (Denz.1658). Spiritualiter vuol dire che è stato un mangiare spirituale, un alimentarsi spirituale; sacramenaliter vuol dire misterioso o mistico, ossia razionalmente incomprensibile e verbalmente inesprimibile; realiter vuol dire fisicamente o materialmente, perché la carne di Cristo «è vero cibo» (Gv 6,55) dell’anima e del corpo.
Nella Settimana Santa della Pasqua Ortodossa, abbiamo ricevuto e pubblichiamo la Pastorale di Pasqua di S.E. † SILUAN
Per grazia di Dio, Vescovo della Eletta da Dio Diocesi Ortodossa Romena d’Italia,
Piissimo Ordine Monastico,
Reverendissimo Clero, e tutti coloro che ascoltano o leggono questa Lettera Pastorale,
Grazia a voi, pace e gioia da Cristo il Risorto dai morti! E da noi, paterna benedizione, assieme all’antichissimo saluto: CRISTO È RISORTO!
Ogni cristiano si rallegra della Resurrezione del Signore e cerca, come può e per quanto comprende, di onorarla e solennizzarla. Ma, per la maggior parte dei battezzati, si è come generalizzata la pratica di „prendere la luce”, di portare per la benedizione il cesto con le leccornie pasquali, preparare la casa e di coprire la tavola di diverse bontà, secondo „le antiche tradizioni”. Ci si pone la domanda: che legame c’è tra tutto ciò e il Cristo Risorto? Questo è il senso secondo il quale Lui si è incarnato, si è fatto uomo, svuotò Sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò Sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce (Fil. 2, 7-8)? Non è forse un prezzo troppo grande per un beneficio troppo piccolo? O forse abbiamo perso di vista ciò che ha portato la venuta nella carne, a noi, di Dio? Forse abbiamo abbandonato la legge di Dio per mantenere la tradizione nostra (cf. Mc. 9, 7)? Non siamo forse più fedeli, a volte, verso le „usanze” e le „tradizioni”, alle ricette di cozonac (pandolce) e i sarmale (involtini di verza), ereditati dagli avi, che non verso le leggi redentrici che ci ha comandato Dio, per mezzo del Figlio (cf. Ebr. 1, 2), faccia a faccia (cf. 1 Cor. 13, 12)? Ma no!… Ma se fosse così, ora – o mai più – è il momento di riconsiderare il senso per il quale il Signore è disceso dal cielo e Si è incarnato, dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria Si è fatto uomo (Si è umanizzato). E il Credo, dal quale ne abbiamo appena citato le parole, ci dice anche il senso di tutto quello che per noi è stato fatto: la croce, la tomba, la resurrezione al terzo giorno, l’ascesa al cielo, la sessione alla destra (del Padre) e persino il senso della (Sua) seconda e gloriosa venuta. E la risposta è: per noi uomini e per la nostra salvezza! Poiché il nostro Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, e che vengano alla conoscenza della verità (1 Tim. 2, 4). Ma ancora c’è qualcuno che desidera salvarsi e giungere alla conoscenza della verità? Certamente, coloro che ascoltano o leggono questa lettera pastorale risponderanno: “Io sì”! “Anch’io”! “Anch’io”! … Ma la salvezza e, specialmente, la via che essa esige sono diventate, per tanti tra coloro che definiscono sé stessi “fedeli”, “nozione astratta”, che solo coloro che studiano teologia glielo potrebbero spiegare, se non addirittura anche questi non lo facciano solo in modo teorico… Sapranno ancora le nonne o le mamme cristiane insegnare ai nipoti o i figli – o le madrine insegnare ai figliocci – a dire il Credo e, di più, sapranno forse spiegargli il senso di ogni singolo articolo di cui esso è composto? È possibile che sappiano ancora farlo… Ma la prassi ci mostra che la maggior parte delle nonne, mamme o madrine, con le quali noi ci incontriamo, hanno difficoltà a recitare il Credo, dall’inizio alla fine, senza tentennamenti e senza il supporto del “testo”, e non hanno la capacità di spiegare ai nipoti e, rispettivamente, ai figli o figliocci, gli articoli che compongono il Credo. Vista la situazione, è il caso che non si faccia passare questa Solennità perché ci rimangano nell’anima solo i ricordi gastronomici. Mettiamo, dunque, nel cuore le seguenti verità di fede: Il nostro Dio è, nella Sua essenza, AMORE! Padre, Figlio e Spirito Santo pongono in essere (creano) sono nell’amore e per l’amore! E l’amore che sgorga dal seno della Santa Trinità non è egoista, ma si è riversato e si è “materializzato” nel mondo in cui viviamo e nell’universo che ci circonda. Ma il mondo creato da Dio ha ricevuto un “signore”: l’Uomo, fatto a immagine di Dio e dotato di tutto ciò che è necessario per assomigliare a Colui che lo ha creato. Il rapporto di Dio con l’uomo, fatto a Sua Immagine, era basato sull’amore e sulla fiducia. A l’uomo Dio ha affidato il paradiso e ogni essere vivente da Lui creato. Per provare e rafforzare l’amore e la fiducia dell’uomo nei Suoi confronti, il Signore gli ha dato un singolo comando, dal quale dipende la stessa sua vita: dall’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare, il giorno in cui ne mangiassi, senza dubbio morirai! (Gen. 2, 17). Ma l’uomo ha avuto più fiducia della creatura (il serpente di cui ne era il custode/signore) che del Creatore – Dio. Da ciò, il rapporto d’amore tra l’uomo e Dio si è compromesso, e l’uomo ha perduto, insieme all’immortalità corporale, anche l’incorruttibilità, divenendo, così, mortale e corruttibile (soggetto all’invecchiamento). Ma Dio-Amore non rinnega Sé stesso e rimane fedele al principio con cui ha costruito il rapporto con l’uomo. Dio rimane fedele e amorevole verso l’uomo, non ostante la sua caduta, e mantiene, nella coscienza dell’uomo, la speranza del riscatto e della liberazione da ogni privazione sopraggiunte insieme alla cacciata dal paradiso e la rottura del patto d’amore e fiducia verso il suo Creatore. E non appena trova uno spirito preposto ad accordare fiducia nel suo Creatore, il Signore gli rivela la propria fiducia nell’uomo, giungendo fino a spogliare Sé tesso, assumere la condizione di servo e divenire simile agli uomini; a assumere la forma di uomo (cf Fil. 2, 7). Dall’obbedienza e la fiducia della Vergine Maria – nuova Eva – l’eterno Figlio del Padre – nuovo Adamo – risponde facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil. 2, 8). Così, per mezzo della venuta nella carne del Figlio di Dio, si rinnova l’Uomo, si rinnova l’umanità fatta a immagine di Dio e si apre, ad ogni figlio o figlia del vecchio Adamo, la possibilità di innestarsi nel Corpo del Nuovo Adamo, affinché la linfa della Vite nuova e eterna giunga in ognuno degli altri membri.
Per questo, il Signore e Redentore nostro ci dice: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in Me e Io in lui, fa molto frutto, perché senza di Me non potete far nulla. Se rimanete in Me e le Mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato (Gv. 15, 5; 7). Il principio dell’amore tra Dio e uomo, come abbiamo potuto vedere dall’inizio, si fonda sulla custodia della parola – i comandamenti – di Dio: Se uno Mi ama, osserverà la Mia parola e il Padre Mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv. 14, 23). Chi accoglie i Miei comandamenti e li osserva, questi Mi ama (Gv. 14, 2). Le parole che vi ho dette sono spirito e vita (Gv. 6, 63). Sullo stesso principio si fonda anche il rapporto di ciascuno di noi con il nostro Redentore e Dio. L’essere credente non si riduce solo al credere che Dio “esiste”. Essere credente significa aver fiducia nel Signore, nelle Sue parole, significa custodire i Suoi comandamenti, vale a dire, costruire su di essi i principi del pensare e del vivere, e non affidarsi a parole o opinioni o “il consiglio” di altri più che a quello che il Signore dice o comanda. Il rapporto di comunione con il nuovo Admo e la condivisione con Lui dipende da un nuovo comandamento di salvezza, dato dal Signore ai Suoi discepoli, nella notte in cui fu venduto – più precisamente quando Egli stesso Si è dato per la vita del mondo- allora, Egli prese il pane e, rese grazie, lo ha spezzato ed ha detto: Prendete, mangiate, questo è il Mio corpo che si spezza per voi. Fate questo in memoria di Me. Allo stesso modo con il calice, dopo la cena, e disse: Questo calice è il nuovo testamento, nel Mio sangue. Questo fate, ogni volta che ne berrete, in memoria di Me. Poiché, ogni volta, se mangerete questo pane e berrete questo calice, annuncerete la Mia morte, testimonierete la Mia resurrezione, fino al Mio ritorno (1 Cor. 11, 23-26 e Liturgia di San Basilio il Grande). Questo comandamento di salvezza si ricorda ed attualizza ad ogni Divina Liturgia, e soprattutto il primo giorno della settimana (cf. Atti 20, 7), seguendo quanto stabilito fin dal tempo degli apostoli, quando quanti da essi battezzati, Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (Atti 2, 42). È essenziale comprendere che, se il rimanere di Adamo nel paradiso dipendeva dalla custodia/vivere il comandamento, “Non mangiate”, allo stesso modo, anche il rimanere innestati al Corpo di Cristo – la Chiesa – dipende, questa volta, dalla custodia/vivere il comandamento “Mangiate”. Questa è la ragione per la quale la Chiesa ha stabilito, con il canone 9 Apostolico e il Canone 2 del Sinodo di Antiochia (341), che coloro che, partecipando alla Liturgia, non si comunicano con Santo Corpo e con il Santo Sangue di Cristo Redentore, siano allontanati, come chi disobbedisce, fino a quando non si convertono/pentono e chiedano perdono, per essere ammessi di nuovo. Proprio come ci dice il Signore: Rimanete in Me e Io in voi. Chi non rimane in Me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano (Gv. 15, 4; 6). In verità, in verità vi dico: se non mangiate il corpo del Figlio dell’uomo e non bevete il Suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia il Mio corpo e beve il Mio sangue ha la vita eterna ed Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché il Mio corpo è vero cibo e il Mio sangue vera bevanda (Gv. 6, 53-55). La comunione con la Parola del Signore e con il Corpo e Sangue Suo significa, ogni volta che lo facciamo, comunione con la Vita di Colui che per noi ha sofferto, ha vinto la morte e, per mezzo di essa, il peccato; è risorto il terzo giorno, è asceso al cielo, siede alla destra del Padre e di nuovo verrà, nella gloria, per chiamare a Sé, per l’eternità beata, tutti coloro che hanno amato la sua manifestazione (Cf. 2 Tim. 4, 8). Il “luogo” in cui il cristiano desideroso di salvezza compie quello che abbiamo ricordato qui sopra non è altro che la “Divina Liturgia”. Qui egli ha l’occasione di comunicarsi, in modo “condensato”, e concreto, con l’insegnamento e il cibo spirituale necessario per rimanere in comunione con il Corpo di Cristo, nel quale fu innestato per mezzo del battesimo, e con tutte le altre membra che appartengono al medesimo Corpo. Da questo luogo sgorga ogni festa, ogni iniziativa, ogni nuovo inizio di vita del cristiano, ad una condizione: Che la partecipazione nostra alla Divina Liturgia non sia mai passiva, cioè come ad uno spettacolo, ma attiva, concreta, tanto nella preparazione interiore, quanto con la preghiera, con il nutrimento della Parola del Signore e con la comunione al Santo Corpo e Prezioso Sangue di Cristo Redentore, affinché, uscendo in pace, benediciamo il nome del Signore e lo annunciamo al mondo nel quale ci è dato di vivere. Vivendo in questi principi, colui che vuole salvarsi può accumulare conoscenze con la lettura e il nutrimento con la Parola del Signore, può “esercitarsi” (disporsi) ad ogni buona azione gradita al Signore; può munirsi con tutte le armi di Dio, affinché possa stare saldo contro le insidie del diavolo (cf. Efes. 6, 11); può purificare la sua anima, in modo continuo, attraverso la Confessione e la Comunione, e può, così, festeggiare pienamente la Resurrezione del Signore, pregustando, sin d’ora, le delizie del Regno eterno del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. È rigorosamente necessario che noi, noi che ci definiamo – e desideriamo esserlo – “fedeli”, ci riappropriamo, in modo più dinamico, dell’identità di figli di Dio e seguiamo i passi del nostro Signore e Redentore, spalancando e aprendo anche noi i nostri cuori (cf. 2 Cor. 6, 13), per ricevere in essi, con compassione, le sofferenze dei nostri simili e dell’intero genere umano – che è tanto fiaccato a causa della caduta del vecchio Adamo e soffre in modo indicibile – affinché si riversi su di esso la gioia nostra, quella di avere nel mondo il Redentore, il Nuovo Admo che prende su di Sé il peccato e la sofferenza del mondo e, per mezzo delle Sue piaghe, fascia le piaghe dei cuori spezzati, proclama il perdono agli schiavi, ai ciechi ridà la vista, consola tutti coloro che sono nel pianto e unge di gioia quanti nella tristezza (cf. Is. 61, 1-2; Lc. 4, 18). La nostra preghiera, la compassione e la benevolenza di ognuno di noi, contano nel mare della sofferenza che ci circonda, e si uniscono con lo scorrere di grazia e di consolazione, che sgorgano dalle piaghe del Redentore che è risorto dai morti! O Cristo, Pasqua grande e Santissima! O Sapienza e Parola di Dio e Potenza; donaci, in modo pieno, di comunicare con Te, nell’intramontabile giorno del Tuo regno! A Lui si addice tutta la gloria, l’onore, la gratitudine e l’adorazione, insieme al Padre Suo senza Principio e al Santissimo e Buono e Vivificante Suo Spirito, ora e sempre, nei secoli eterni. Amen.
CRISTO È RISORTO!
Nell’abbraccio paterno in Cristo il Risorto e l’Apostolica Benedizione su ciascuno di voi,
vi auguro ogni bene per la salvezza!
† Vescovo SILUAN
della Diocesi Ortodossa Romena d’Italia
Data dalla Nostra Residenza di Roma, nella Luminosa Solennità della Resurrezione del Signore
Anno della Redenzione 2023, il mese di aprile, il giorno sedici.
Il grande scrittore russo Cechov, affermò che “l’indifferenza è la paralisi dell’anima, è una morte prematura”, mentre Primo Levi sosteneva che “È successo, quindi può succedere ancora”. A noi è stato affidato il compito di far sì che non succeda ancora, che non accada il peggio! La situazione europea è in evoluzione e stanno accadendo imprevisti che potrebbero sfuggire di mano a certa politica incurante della dignità della persona umana e del bene comune: l’Europa. Molti di noi ricordano in occasioni e anniversari commemorativi il famoso testo di Bertolt Brecht, tratto da una omelia di Martin Niemoeller: Prima di tutto vennero a prendere gli zingari:
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i monaci nei monasteri, e io non dissi niente, perché non ero un monaco.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.
-Martin Niemöller (1892-1984)
Il testo fu in origine un sermone del pastore e teologo tedesco Martin Niemöller, diventato una celebre poesia attribuita a Bertold Brecht. Niemöller fu arrestato su ordine di Hitler, dopo un sermone, e rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau. Riuscì a sopravvivere e passò gli anni Quaranta e Cinquanta a predicare a favore della pace e contro le discriminazioni, pronunciando più volte questo discorso diventato celebre. Testo che, nel tempo, è stato rimaneggiato più volte, adattando il discorso alle varie situazioni.
Ciò che andiamo denunciando sono i pericoli dell’apatia politica in Europa di fronte all’odio nei confronti dei cristiani nei vari paesi, perseguitati in virtù della loro fede in Gesù Cristo Figlio di Dio. Tale apatia è evidente nell’odio teso ad impaurire persone e obiettivi fino a rendere la situazione fuori controllo. L’escalation della tensione porterebbe ad un punto irreversibile di non ritorno. E’ necessario più spazio alla diplomazia e al dialogo tra le parti in conflitto: l’ingresso dell’Ucraina nella NATO equivarrebbe allo scoppio inevitabile della Terza Guerra Mondiale, nucleare.
Il prossimo 15 aprile, a partire dalle ore 15 fino alle 19, ci diamo appuntamento per ritrovarci insieme, in pace, per un saluto e lo scambio di auguri pasquali, vicino a Piazza Venezia, a Roma, all’ombra della Colonna di Traiano. Per comunicare la vostra partecipazione, inviate un messaggio vi WhatsApp: +39 320 1161307.
Bucurați-vă surori mândre și vă înveseliți / Împreună regăsite, lânga maica ce iubiți / Jucați hora înfrățirii cu flăcăi dintre stejari, / Hora sfânta a dezrobirii, hora României Mari. Iar când falnic viitorul, va păstra în veci făclia, / Basarabia rămâne pe veci a Țării noastre rai, / Ca în hrisoave să rămâie / Ferdinand și cu Maria, / Prea slăviți în România, pe altarul lui Mihai. (C. Sylva, alias Regina Elisabeta a României, pe Actul Unirii Votat de Sfatul Țării, la 27 Martie 1918.)
Capitală politică în vremuri de război, Iașul a avut un rol important în procesul de unire desfășurat în anul 1918. De la Iași, autoritățile românești au coordonat procesul unionist și au asigurat reușita mișcărilor naționale din provinciile nou alipite. Contemporanii nu au putut să nu remarce că veche reședință a domnilor Moldovei se transformase astfel în „leagănul Unirii”.
În cazul Basarabiei, încă de la începutul lunii martie 1918, delagații ale fruntașilor basarabeni se deplasează la Iași pentru întrevederi cu regele Ferdinand, cu prim-ministrul Alexandru Marghiloman sau cu oameni de cultură din cadrul Academiei Române sau al Universităţii. A rămas memorabilă întâlnirea de la Institutul de Anatomie din Iaşi, din 1 martie 1918, când Nicoale Iorga a rostit către delegaţia basarabeană cuvintele: „aţi venit la o mare durere a noastră şi ne‐aţi adus o mare mângăiere”. În contextul situaţiei din fostul Imperiu Rus, a pretențiilor teritoriale ale Radei Centrale de la Kiev şi pe fondul începerii negocierilor de pace de către România cu Puterile Centrale, situaţia existenţei de drept a Republicii Moldoveneşti părea definitiv legată de Unirea cu România.
Delegația Basarabiei la Iași: Șt. Ciobanu, I. Pelivan, Pan Halippa, Al. Ciugureanu, 1918 (ANRM)
După votul din Sfatul Țării de la 27 martie, o delegaţie de fruntaşi basarabeni a venit la Iaşi, la 30 martie 1918, pentru a aduce la cunoştinţa regelui Ferdinand Declaraţia de Unire a Basarabiei. Primirea a fost una fastuoasă, Iaşul îmbrăcând haine de sărbătoare și fiind împodobit cu drapele tricolore. S‐au organizat numeroase manifestări, la care au venit lideri politici români din ambele tabere, conservatoare şi liberală. Delegaţia basarabeană, compusă, printre alţii, din Ion Inculeţ, Pan. Halippa, Constantin Stere, Daniel Ciugureanu, a fost întâmpinată în gară de Alexandru Marghiloman. Apoi, oficialitățile s‐au deplasat la Mitropolie, unde, în prezenţa familiei regale, mitropolitul Pimen al Moldovei a susţinut un Te Deum. În cadrul Palatului Mitropoliei, a avut loc o recepţie, unde i s-a prezentat regelui textul Declaraţiei de Unire. La finalul recepţiei, pe strada Ştefan cel Mare, regele a trecut în revistă trupele Regimentelor 1 şi 2 Grăniceri şi 7 Vânători. Manifestările au continuat la reşedinţa regală, de pe strada Lăpușneanu, delegaţii basarabeni fiind decoraţi de regele Ferdinand. Discursul Majestății Sale a fost unul emoţionant: „V‐aţi alipit în timpuri grele de Ţara‐Mamă, ca un copil tânăr cu inima adevărat românească. Salutăm în voi o parte frumoasă a unui vis care niciodată nu se va şterge. De aceea ridic paharul meu în sănătatea fraţilor noştri, îmbrăţişaţi de Mine cu aceeaşi căldură a dragostei părinteşti. Traiască copilul cel mic, dar poate cel mai voinic al României‐Mame!”. La finalul dejunului regal, în Piața Unirii, s-a jucat simbolic Hora Unirii, în care s-au prins şi membrii familiei regale. După‐amiază, delegaţii basarabeni au fost primiţi la Universitate, unde s-au ţinut discursuri emoţionante.
Regele Ferdinand și regina Maria sărbătorind la Iași, la 30 martie 1918, Unirea Basarabiei cu România (SANIC)
Sărbătorile de la Iași, dedicate Unirii Basarabiei din 30 martie, au fost și un prilej de mobilizare a unor noi speranțe. După condițiile potrivnice, impuse de negocierile de pace cu Puterile Centrale, contemporanii întrezăreau în actul istoric de la 27 martie 1918 și în delegații basarabeni „vestitorii sărbătorii de mâine”. C. Kirițescu, martor al evenimentelor, avea să noteze: „Iașul, cufundat în tristeță din cauza păcii de robire ce se impunea țării de la București, își uita pentru o clipă durerea și îmbrăca haine de sărbătoare […]. Lacrămi de jale se amestecau cu lacrămi de bucurie […] era în simțirea tuturor gândul creștinesc că din durere se zămislește mântuirea și că de pe masa de supliciu de la București, unde România era schingiuită și umilită, se va înălța marea înviere a întregului neam românesc”.
La finalul războiului, în lunile octombrie și noiembrie 1918, în plin proces de reașezare a realităților geopolitice, Bucovina era revendicată deopotrivă de Rada uncraineană dar și de Coroana autriacă. Aflați la Iași, românii emigrați din Imperiul Austro-Ungar protestează împotriva acestor tendințe și la 6/19 octombrie își afirmă, într-o Declarație manifest, opțiunile unioniste cu „patria-mamă”. Adunarea națională de la Cernăuți din 14/27 octombrie 1918, prin care românii bucovineni se organizează într-un Consiliu Național și își proclamă opțiunea unionistă, a trezit vii sentimente în Iași. La 22 octombrie, orașul a îmbrăcat din nou haine de sărbătoare, în Piața Unirii și pe Lăpușneanu, în cadrul unur adunări publice, manifestându-se în sprijinul fraților bucovineni. Devenit deja un loc simbol, în jurul statui lui Alexandru Ioan Cuza s-a jucat Hora Unirii. Însă, la începutul lunii noiembrie situația devenise tensionată la Cernăuți, rămășite ale armatei austriece și legiunile ucrainiene încercând să producă dezordini în Bucovina. Intervenția armatei române, condusă de generalul I. Zadic, a fost decisivă, ordinea fiind restabilită. Evenimentele au luat o turnură favorabilă cauzei românești. Fruntașii bucovinei vin la Iași pentru consultări cu autoritățile române. Se stabilesc pașii de făcut, emigrația bucovineană din Regat fiind integrată acum în Consiliul Național de la Cernăuți. La 15/28 noiembrie, în Sala Sinodală a Palatului Mitropolitan din Cernăuți au avut loc lucrările Congresului General al Bucovinei, la finalul cărora se votează unirea cu Regatul României. La Iași emoția momentului este redată în cuvinte emoționante: „Fii binecuvântată și binevenită, dulce Bucovină, la sânul Patriei-Mame”. O delegație a Congresului, condusă de Iancu Flondor din care mai făceau parte I. Nistor, E. Hurmuzachi, urma să aducă la Iași Actul Unirii, în vederea prezentării Regelui și guvernului român. La 17/30 noiembrie, generalul Coandă și Regele Ferdinand iau act de „închinarea țării Bucovinei”.
Regele Ferdinand și regina Maria sărbătorind la Iași, la 30 martie 1918, Unirea Basarabiei cu România (SANIC)Membrii Sfatul Ţării (27 noiembrie/10 decembrie 1918) ANICActul Unirii Basarabiei cu România (ANIC)
În lunile octombrie și noiembrie 1918, în condițiile în care forțele beligerante se pregăteau pentru încheierea războiului și negocierea păcii, oficialitățile de la Budepesta își manifestă deschis interesul făță de menținerea Ardealul între granițele maghiare, ca punct de plecare a negocierilor cu Puterile Antantei. Un moment important pentru mișcarea națională a românilor din Imperiul austro-ungar îl reprezintă Declarația de la Oradea a Comitetului Executiv al Partidului Național Român, din 29 septembrie/12 octombrie 1918, prin care se proclama dreptul națiunii române de a-și decide singură soarta. Textul a fost citit și în Parlamentul de la Budapesta, în ședința din 5/18 octombrie, de către Al. Vaida Voevod. La Iași, discursul a fost primit cu o vie satisfacție de către lideri politici români.
Perioada cuprinsă între Declarația de la Oradea și momentul Unirii, din 18 nov./1 dec. 1918 a fost una de maximă efervescență politică pentru liderii mișcării naționale a românilor din Imperiu. S-au organizat structurile de conducere centrală și locală în Transilvania (gărzile naționale), s-au coalizat toate formele asociaționismului ardelean, reprezentat de foștii ofițeri, liderii celor două confesiuni religioase, ortodoxă și greco-catolică, studenți, asociațiile de femei. La Budapesta, la 18/31 octombrie 1918 s-a format Consiliului Național Român Central, care ulterior își va muta sediul la Arad. Până la Adunarea de la Alba Iulia, când și-a depus mandatul fiind înlocuit de Consiliul Dirigent, a reprezentat organul executiv al românilor din Banat și Ardeal, conducând și reprezentând efectiv provinciile românești în momentele tulbure ale finalului conflagrației. Demn de remarcat este și solicitarea Consiului Național ca armata română, care începând cu 11 noiembrie 1918 reintră în Ardeal prin trecătorile Carpaților Orientali, să păstreze un aliniament pe linia munților.
La Iași, presa și populația orașului au vibrat la deciziile factorilor de conducere ardeleni, delegații ale acestora aducând la cunoștința guvernului român și Regelui opțiunile unioniste. Mai cu seamă după mijlocul lunii noiembrie 1918 trimiși ardeleni, conduși fie de profesorul N. Bălan sau de Gh. Crișan, secretarul Consiliului, au fost la Iași. După 11/24 noiembrie, momentul lansării apelului „Veniți la Alba Iulia”, în capitala Moldovei delegațiile acestora au convorbiri cu guvernul și regele român dar și cu reprezentanții diplomatici ai Aliaților. În Piața Unirii, în jurul statuii lui Alexandru I. Cuza, când veștile fericite de peste munți se răspândeau în oraș, ieșenii și refugiații români din Muntenia dar și cei din Imperiu manifestau și, simbolic, jucau Hora Unirii.
Un moment important petrecut la Iași, în directă legătură cu evenimentele din Ardeal, l-a reprezentat sărbătorirea zilei Sfinților Arhangheli Mihail și Gavril, la 8 noiembrie. Simbolic, la Iași s-au închinat ceremonii fostului domnitor Mihai Viteazul. La Mitropolie, în timpul slujbei oficiate de mitropolitul Pimen, în sala Teatrului, unde au vorbit profesorii Al. Lapedatu și N. Bălan din partea Ardealului și V. Bodnărescu din partea Bucovinei, s-a reliefat fapta „unirii celei mari” realizată la 1600. În aceeași notă, în ședința solemnă din Aula Universității, istoricul Nicoale Iorga a punctat „însemnătatea actuală” a politicii lui Mihai Viteazul. Iașul omagia astfel pe cel căruia i se recunoștea paternitatea „Ideii care a biruit veacurile”, cum frumos era descris în cotidianul ieșean „Mișcarea”. De altfel, în perioada refugiul, craniul marelui domnitor a fost mutat din teritoriul ocupat și adăpostit temporar în Catedrala Iașului.
În momentul votării Rezoluției de Unire de la Alba Iulia, 18 noiembrie/1 decembrie 1918, Iașul era părăsit de suverani și de guvernul României, care se reîntorceau în Bucureștiul eliberat. Un nou capitol de istorie se încheia pentru vechea capitală a Moldovei. Cu toate acestea, la Iași, oficialitățile au ținut să sărbătorească Unirea Transilvaniei. La 26 nov./9 dec. 1918, la Mitropolie s-a oficiat un serviciu-divin iar în Piața Unirii s-a jucat din nou Hora Unirii, de data aceasta a Unirii depline. În sala Teatrului, în fața reprezentanților tuturor provinciilor unite cu patria mamă, Nicolae Iorga a revenit în locul unde, probabil, în decembrie 1916, a ținut cel mai emoționant discurs al său și conferențiat depre Ideea Daciei Românești. Astfel, capitala războiului „proslăvea marele act al Unirii”, Iașul sacrificând atât de mult pentru marele ideal.
Capitale politica della guerra, Iași svolse un ruolo importante nel processo di unificazione del 1918. Da Iași, le autorità rumene coordinarono il processo unionista e assicurarono il successo dei movimenti nazionali nelle nuove province alleate. I contemporanei non potevano non notare che l’ex residenza dei signori moldavi era diventata la “culla dell’Unione”.
Nel caso della Bessarabia, già all’inizio di marzo 1918, delegazioni di leader bessarabi si recarono a Iași per incontri con il re Ferdinando, il primo ministro Alexandru Marghiloman e personalità della cultura dell’Accademia romena e dell’Università. Memorabile l’incontro presso l’Istituto di Anatomia di Iași il 1° marzo 1918, quando Nicoale Iorga disse alla delegazione bessarabica: “siete venuti con nostro grande dolore e ci avete portato grande conforto”. Nel contesto della situazione nell’ex Impero russo, delle rivendicazioni territoriali della Rada centrale di Kiev e dell’avvio dei negoziati di pace tra la Romania e le Potenze centrali, l’esistenza giuridica della Moldova sembrava definitivamente legata all’Unione con la Romania.
Dopo il voto del Consiglio di Stato del 27 marzo, il 30 marzo 1918 una delegazione di leader bessarabi si recò a Iași per portare la dichiarazione dell’Unione della Bessarabia all’attenzione di re Ferdinando. L’accoglienza fu sontuosa, con Iași vestita a festa e adornata di bandiere tricolori. Sono stati organizzati numerosi eventi, ai quali hanno partecipato i leader politici rumeni sia dell’ala conservatrice che liberale. La delegazione bessarabica, composta tra gli altri da Ion Inculeț, Pan. Halippa, Constantin Stere, Daniel Ciugureanu, fu accolta alla stazione ferroviaria da Alexandru Marghiloman. I funzionari si spostarono poi alla sede della Metropolia, dove, alla presenza della famiglia reale, il Metropolita Pimen di Moldavia ecelbrò il Te Deum. Nel palazzo della Metropolia si tenne un ricevimento in cui fu presentato al Re il testo della Dichiarazione di Unione. Al termine del ricevimento, in via Stefan cel Mare, il Re passò in rassegna le truppe del 1° e 2° Reggimento dei Fucilieri e del 7° Cacciatori. Gli eventi proseguirono nella residenza reale di via Lăpușneanu, dove i delegati bessarabi furono decorati da Re Ferdinando. Il discorso di Sua Maestà fu commovente: “Vi siete uniti alla vostra Madrepatria in tempi difficili, come un giovane bambino con un vero cuore romeno. Salutiamo in te una bella parte di un sogno che non svanirà mai. Per questo brindo alla salute dei nostri fratelli, abbracciati da Me con lo stesso calore dell’amore genitoriale. Lunga vita al più giovane, ma forse al più coraggioso figlio della Romania, la Madre!“. Al termine della colazione reale, in Piazza Unirii, fu interpretata la simbolica Hora dell’Unione, il ballo al quale parteciparono anche i membri della famiglia reale. Nel pomeriggio, i delegati bessarabi furono ricevuti all’Università, dove furono pronunciati commoventi discorsi.
Le celebrazioni a Iași, dedicate all’Unione della Bessarabia il 30 marzo, furono anche un’occasione per mobilitare nuove speranze. Dopo le condizioni avverse imposte dai negoziati di pace con le Potenze Centrali, i contemporanei vedevano nell’atto storico del 27 marzo 1918 e nei delegati bessarabi “i forieri del domani”. C. Kirițescu, testimone degli eventi, ha osservato: “Iasi, immersa nella tristezza per la pace di schiavitù imposta al Paese da Bucarest, dimenticò per un attimo il suo dolore e si vestì a festa […]. Lacrime di dolore si mescolavano a lacrime di gioia […] nella mente di tutti c’era il pensiero cristiano che dal dolore nasce la salvezza e che dalla tavola del supplizio di Bucarest, dove la Romania è stata schiacciata e umiliata, sorgerà la grande resurrezione dell’intera nazione romena“.
Alla conclusione della guerra, nei mesi di ottobre e novembre 1918, nel bel mezzo di un processo di riallineamento geopolitico, la Bucovina fu rivendicata sia dalla Rada ucraina che dalla Corona austriaca. I romeni emigrati dall’Impero austro-ungarico a Iași protestarono contro queste tendenze e il 6/19 ottobre, in una dichiarazione-manifesto, dichiararono le loro opzioni unioniste con la “madrepatria”. L’Assemblea nazionale di Chernivtsi del 14/27 ottobre 1918, in cui i romeni della Bucovina si organizzarono in un Consiglio nazionale e proclamarono la loro opzione unionista, suscitò forti sentimenti a Iași. Il 22 ottobre, la città si vestì nuovamente a festa, nella piazza dell’Unificazione e a Lăpușneanu, durante un’assemblea pubblica, manifestando a sostegno dei fratelli bucovini. Già luogo simbolico, la Hora Unirii (Ballo dell’Unione) fu intonata intorno alla statua di Alexandru Ioan Cuza. Ma all’inizio di novembre la situazione diventò tesa a Chernivtsi, con i resti dell’esercito austriaco e delle legioni ucraine che cercarono di provocare disordini in Bucovina. L’intervento dell’esercito rumeno, guidato dal generale I. Zadic, fu decisivo e l’ordine fu ristabilito. Gli eventi prendono una piega a favore della causa romena. I leader della Bucovina si recano a Iasi per consultazioni con le autorità rumene. Vengono stabiliti i passi da compiere e l’emigrazione bucovina dal Regno viene integrata nel Consiglio nazionale di Chernivtsi. Il 15/28 novembre, nella Sala Sinodale del Palazzo Metropolitano di Chernivtsi, si tengono i lavori del Congresso Generale della Bucovina, al termine dei quali fu votata l’unione con il Regno di Romania. A Iași, l’emozione del momento fu espressa con parole toccanti: “Sii benedetta e benvenuta, dolce Bucovina, nel seno della Madrepatria“. Una delegazione del Congresso, guidata da Iancu Flondor e comprendente I. Nistor, E. Hurmuzachi, portò la Bucovina nel seno della Madrepatria. Hurmuzachi, avrebbe dovuto portare l’Atto di Unione a Iasi, per presentarlo al Re e al governo rumeno. Il 17/30 novembre, il generale Coandă e il re Ferdinando prendono atto della “unione della Terra di Bucovina”.
Nell’ottobre e nel novembre 1918, mentre le forze belligeranti si prepararono a terminare la guerra e a negoziare la pace, i funzionari di Budepesta espressero apertamente il loro interesse a mantenere Ardeal all’interno dei confini ungheresi come punto di partenza per i negoziati con le potenze dell’Intesa. Un momento importante per il movimento nazionale dei romeni nell’Impero austro-ungarico fu la Dichiarazione di Oradea del Comitato esecutivo del Partito Nazionale Rumeno del 29 settembre/12 ottobre 1918, che proclamò il diritto della nazione rumena di decidere il proprio destino. Il testo fu letto anche al Parlamento di Budapest, nella sessione del 5/18 ottobre, da Al. Vaida Voevod. A Iași, il discorso fu accolto con grande soddisfazione dai leader politici romeni.
Il periodo tra la Dichiarazione di Oradea e il momento dell’Unione, il 18 novembre/1 dicembre 1918, fu un periodo di massima effervescenza politica. 1918, infatti, fu un periodo di massima effervescenza politica per i leader del movimento nazionale romeno nell’Impero. Furono organizzate le strutture dirigenziali centrali e locali in Transilvania (guardie nazionali), furono riunite tutte le forme di associazioni transilvane, rappresentate da ex ufficiali, leader delle due confessioni religiose, ortodossa e greco-cattolica, studenti, associazioni femminili. Il Consiglio Nazionale Centrale Rumeno fu costituito a Budapest il 18/31 ottobre 1918 e successivamente trasferì la sua sede ad Arad. Fino all’Assemblea di Alba Iulia, quando si dimise e fu sostituito dal Consiglio direttivo, rappresentò l’organo esecutivo dei romeni del Banato e di Ardeal, guidando e rappresentando efficacemente le province romene nei momenti travagliati della fine della conflagrazione. Va ricordata anche la richiesta del Consiglio nazionale che l’esercito rumeno, rientrato in Transilvania attraverso i passi dei Carpazi orientali l’11 novembre 1918, mantenesse un allineamento lungo la linea delle montagne.
A Iași, la stampa e la popolazione della città reagirono alle decisioni delle figure di spicco della regione, le cui delegazioni informarono il governo rumeno e il Re delle opzioni unioniste. Soprattutto dopo la metà di novembre del 1918, gli inviati transilvani, guidati dal professor N. Bălan o da Gh. Crișan, segretario del Consiglio, erano a Iași. Dopo l’11/24 novembre, quando è stato lanciato l’appello “Venite ad Alba Iulia”, le loro delegazioni ebbero colloqui nella capitale della Moldavia con il governo e il sovrano romeni e con i rappresentanti diplomatici degli Alleati. Nella piazza dell’Unificazione, attorno alla statua di Alexandru I. Cuza, quando la lieta notizia proveniente da oltre le montagne si diffondeva in città, gli abitanti di Iasi e i profughi rumeni dalla Muntenia e dall’Impero manifestavano e, simbolicamente, suonavano l’Ora dell’Unificazione.
Un momento importante a Iași, direttamente collegato agli eventi di Ardeal, è stata la celebrazione del giorno degli arcangeli Michele e Gabriele, l’8 novembre. Simbolicamente, a Iași si tennero cerimonie in onore dell’ex sovrano Mihai Viteazul. Alla Mitropoli, durante la funzione officiata dal Metropolita Pimen, nella Sala del Teatro, dove i professori Al. Lapedatu e N. Bălan di Ardeal e V. Bodnărescu della Bucovina, fu sottolineata la “grande unione” raggiunta nel 1600. Allo stesso modo, nella sessione solenne nella Sala dell’Università, lo storico Nicoale Iorga sottolineò il “significato attuale” della politica di Mihai Viteazul. Iasi ha così reso omaggio a colui che fu riconosciuto come il padre dell'”Idea che ha conquistato i secoli”, come è stato splendidamente descritto dal quotidiano di Iasi “Mișcarea”. Infatti, durante il periodo dei rifugiati, il cranio del grande sovrano fu trasferito dal territorio occupato e temporaneamente ospitato nella Cattedrale di Iasi.
Al momento del voto della Risoluzione dell’Unione di Alba Iulia, il 18 novembre/1 dicembre 1918, Iasi fu abbandonata dai sovrani e dal governo rumeno, che tornarono nella Bucarest liberata. Per la vecchia capitale della Moldavia si chiudeva un nuovo capitolo della storia. Tuttavia, a Iași, i funzionari furono ansiosi di celebrare l’Unione della Transilvania. Il 26 novembre/9 dicembre 1918, si tenne un servizio divino alla Metropolia e la Piazza dell’Unione fu ancora una volta teatro del Ballo dell’Unione, questa volta dell’Unione completa. Nella sala del Teatro, davanti ai rappresentanti di tutte le province unite alla madrepatria, Nicolae Iorga tornò nel luogo in cui, probabilmente nel dicembre 1916, tenne il suo discorso e la sua conferenza più toccanti sull’Idea della Dacia romena. Così, la capitale della guerra “glorificava il grande atto dell’Unione”, avendo Iasi sacrificato tanto per il grande ideale.
Giornata di studio e riflessione su “Un Nuovo Umanesimo in Europa”
Sala Capitolare presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva
Piazza della Minerva, 38 – 00186 Roma
Venerdì, 10 marzo 2023 si tenuta, a Roma, la conferenza “Un Nuovo Umanesimo in Europa”, su iniziativa del Senatore Mario Occhiuto e organizzata in collaborazione con le Associazioni IRFI “Italia Romania Futuro Insieme”, l’Anno Marguttiano e “Human 4 Human” Association. L’evento ha beneficiato dalla partecipazione di 25 studiosi, artisti e attivisti italiani, romeni, ucraini, turchi, palestinesi, russi, moldavi, bulgari, africani e bosniaci che hanno contribuito con riflessioni e proposte concrete in merito al tema.
La conferenza nasce con l’obiettivo di riflettere sulle sfide che l’Europa deve affrontare in un’epoca di cambiamento profondo e di incertezza. L’umanesimo, inteso come filosofia e come stile di vita che mette al centro la dignità umana e il bene comune, può offrire un importante contributo per affrontare tali sfide e costruire una società più giusta, solidale, sussidiaria e creativa.
I lavori, moderati dalla giornalista romena Anca A. Mihai, sono stati inaugurati dal Prof. Ing. Gianni Cara, Presidente dell’Università Internazionale per la Pace di Roma. Il professore ha parlato delle prospettive future che l’istituzione che egli rappresenta offre all’umanità attraverso il Master in Diritto e applicazioni spaziali: prospettive e benefici futuri. A seguire, il prof. Luigi Troiani, docente di Relazioni Internazionali alla Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino “Angelicum”, ha ricordato che “è tempo che la cultura, le religioni, le idee tornino a condizionare lo spadroneggiamento dei troppo potenti e dei troppo ricchi, per condurli verso quell’umanesimo integrale auspicato da J. Maritain”.
Il conte Prof. Fernando Crociani Baglioni noto storico, giornalista e sociologo ha contestualizzato dal punto di vista storico, le radici cristiane dell’Europa sottolineando la necessità di ricordarle mentre si cerca la strada verso un futuro più giusto. A completare tale prospettiva è stata la sociologa Contessa Simona Cecilia Crociani Baglioni Farcas, presidente dell’Associazione Italia Romania Futuro Insiemela quale ha evidenziato come alla politica “manchi l’anima” e si debba far presto a ritrovarla. Suor Kornelia Halyna Zhupnyk dell’Ordine delle Suore di San Basilio Magno e dottoranda in Antropologia teologica al Teresianum di Roma ha evidenziato come senza la Verità, non esiste pace interiore o esteriore e che viviamo in un’epoca “post-verità”. La prof.ssa Aurora Martin del Pontificio Istituto Orientale, ha fato notare la similitudine tra “umanesimo” e “woman”, un gioco di parole per introdurre come tema di riflessione l’urgente bisogno di parità di genere se si vuole vivere in una società più equa. Dall’altro canto, il giornalista Corrado Giustiniani ha affrontato tre temi riconducibili all’attualità: l’accoglienza italiana ed europea ai rifugiati, la legge di cittadinanza che penalizza i figli degli immigrati nati in Italia e la situazione dei migranti economici. L’attivista per il dialogo interculturale turco, Mustafà Cenap Aydin ha ricordato il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, noto anche comeDichiarazione di Abu Dhabi, l’accordo siglato nel 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam al-Azhar Ahmad al-Tayyib, come base di partenza per un nuovo umanesimo. L’imprenditrice turistica di origini moldave, Ludmila Posiletcaia, l’unica donna straniera membro dell’Associazione SKAL International Roma, ha sottolineato come i viaggi siano portatori di scambi culturali, un continuo dare e ricevere e, ognuno di noi sia ambasciatore della propria cultura. Il Prof. Aodi Foad, Presidente AMSI Medici Stranieri in Italia ha portato in discussione la difficoltà che l’Italia ha di valorizzare l’immigrazione qualificata e la necessità di mantenere aperto un dialogo tra professionisti e istituzioni, in quanto, “l’integrazione – come il dialogo – si fa sempre in due”. L’avvocato Fabio Maria Galiani ha precisato che “la solidarietà e il nuovo umanesimo passano necessariamente per l’irrilevanza della cittadinanza e l’abolizione delle frontiere”. Dalla Sala Capitolare, l’avvocato ha colto l’occasione per lanciare “un appello per la formazione di una Commissione permanente del Senato per i diritti umani. La direttrice della scuola ucraina di Roma, “Prestigio”, Tetyana Tarasenko, ha raccontato l’esperienza di affrontare, da un giorno all’altro, l’emergenza dei profughi ucraini allo scoppio della guerra, nel 2022. L’intervento si è concluso con un minuto di silenzio per tutte le vittime ucraine e russe e di tutti i conflitti in atto nel mondo, esprimendo solidarietà a tutti i popoli che soffrono a causa dei conflitti stessi, dei disastri naturali in questo periodo storico. L’unico giornalista ceco-slovacco accreditato presso la Santa Sede, Bohumil Petrik, ha illustrato come un nuovo umanesimo sia, in realtà, il vecchio con “il bisogno dell’antico triumvirato: la filosofia greca, diritto romano e l’etica cristiana”.
La prima sessione della Giornata di studio e riflessione su “Un Nuovo Umanesimo in Europa” si è conclusa con l’intervento dell’esperta in diritti umani e cooperazione internazionale, Fatima Neimarlija, presidente della Comunità bosniaca a Roma, “Bosnia nel cuore”. Ricordando gli orrori del genocidio di Srebrenica, sotto “gli occhi indifferenti dell’Europa di trent’anni fa”.
Nella seconda sessione, il sociologo Conte Prof. Fernando Crociani Baglioni, aprendo i lavori, ha ricordato che “l’Europa è una realtà di 500 milioni di cittadini”, aspetto importante da tenere conto nelle analisi. La seconda parte del convegno è stata dedicata al contributo che l’arte nella sua complessità di espressione può offrire per mettere al centro la dignità umana e il bene comune.
La scrittrice russa Iana Nekrassova, attraverso la pubblicazione del libro «Fedor Sabašnikov e «Il Codice sul volo» di Leonardo da Vinci», nel suo racconto ha voluto dimostrare come “ciascuno di noi, individualmente, può vivere il proprio rinascimento, l’importante è seguire il proprio ideale, il cuore e il proprio intuito”. L’artista e drammaturgo bulgara Isabel Russinova ha scelto di portare in discussione, come esempio di umanesimo, la scrittrice italiana Christine de Pizan, citando la più famosa delle poesie, Seulete sui (Sono sola).La Vice-Presidente dell’Associazione Internazionale di Diritto Pontificio Sanctus Benedictus Patronis Europae, Dott.ssa Caterina Comino, ha concorso i lavori con l’approfondimento della Regola di San Benedetto basata sui tre precetti fondamentali: il silenzio, l’umiltà, l’obbedienza. A seguire, l’artista Oana A. Costiuc Poleacec ha scelto di raffigurare il volto della donna come simbolo dell’espressione di colore, riflessione e vita. La storica dell’arte della Chiesa Prof.ssa Cristina Mandosi ha salutato l’iniziativa degli organizzatori di coinvolgere studiosi di varie nazionalità che vivono in Italia per parlare del futuro europeo nonostante esse siano nate fuori dei confini classici dell’Europa. L’umanista scrittrice Mandosi, è esperta di scienze della comunicazione e direttrice artistica dell’Anno Marguttiano, un’iniziativa del dialogo interculturale nel nome dell’arte. Come contributo ai lavori dalla Russia, è stata invitata a parlare la scrittrice Baronessa Elena Stepanoff-Scammacca del Murgo la quale ha presentato uno dei suoi libri sui Conti Ludolf e il potere della diplomazia nella costruzione dell’umanesimo. A suo turno, la musicista Michaela Schefer già responsabile per i progetti internazionali della RAI, Radio Televisione Italiana,ha menzionato l’importanza della musica come linguaggio universale e, soprattutto, come un’essenziale eredità per i giovani. La poetessa moldava Dott.ssa Tatiana Ciobanu, tra i tanti spunti interessanti, si è spesa per assicurare che la sua Patria torni ad essere terra romena attraverso una pacifica riunificazione.
Non si può progettare il futuro senza includere le risorse finanziarie e l’economista Chiara Subrizi ha portato la testimonianza del movimento Economy of Francesco, ispirato alla missione di San Francesco d’Assisi che riunisce giovani imprenditori, economisti e attivisti per costruire un’economia più inclusiva dei poveri nel mondo. Sempre di equilibri, stavolta energetici ha parlato la naturopata Magda Arama con il messaggio che “l’armonia interiore genera armonia esteriore”. I lavori si sono conclusi con la benedizione del S.E. il Vescovo anglicano Luis Miguel Perea Castrillón.
Durante il programma, l’Istituto di Studi Storici Beato Pio IX rappresentato dal conte Crociani Baglioni, ha consegnato diplomi di accademico benemerito a Tetyana Tarasenko, Caterina Comino, Cristina Mandosi e Tatiana Ciobanu.
La conferenza è stata onorata dalla presenza del primo Segretario dell’Ambasciata di Romania nella Repubblica Italiana, Dott.ssa Corina Lefter.
La Dott.ssa Corina Lefter dell’Ambasciata di Romania in Italia ha onorato la Giornata di studi e dialogo per “Un Nuovo Umanesimo in Europa” con la sua presenza, intrattenendosi con i relatori e i partecipanti.Prof. Luigi Troiani, Docente di Relazioni Internazionali
La Dott.ssa Corina Lefter Primo Segretario dell’Ambasciata di Romania in Italia ha onorato la Giornata di studi e dialogo per “Un Nuovo Umanesimo in Europa” con la sua presenza, intrattenendosi con i relatori e i partecipanti.
“È tempo di ritornare umani”, abbiamo letto in un foglio sbattuto dal vento sulla spiaggia di Cutro. Di fronte a quella spiaggia sono stati recuperati sinora 72 corpi.
Quousque tandem abutere, si potrebbe dire con Cicerone che parla ai senatori contro il cospiratore Catilina: Fino a quando voi potenti e straricchi della Terra abuserete della nostra pazienza?
E ancora: Fino a quando noi, piccoli e poveri del mondo, lasceremo che i troppo potenti e i troppo ricchi abusino di noi?
Sta scorrendo da troppo tempo, il tempo di ritornare umani, questa è la verità. Ammesso che sia vero ciò che noi qui tutti crediamo, ovvero che nonostante il grande male e la violenza che ci circonda e invade, il genere umano ha l’opportunità, e può darsi la capacità, di smetterla con i comportamenti di inimicizia verso la sua stessa specie e verso la sola e comune casa che lo ospita, il pianeta Terra.
Proviamo a vederli questi comportamenti di inimicizia. Sono così numerosi che non possono essere tutti elencati, ma con alcuni occorre necessariamente confrontarsi.
1)Per i comportamenti contro la specie, basterebbe il lungo elenco delle guerre in corso. Dopo gli anni del blocco o quasi alla violenza degli stati, seguiti all’implosione dell’Unione Sovietica, il ferro e il fuoco della ferocia bellica – prerogativa degli stati ma non solo – hanno ripreso a martoriare i popoli e le nazioni, a distruggerne vita e beni, a generare invalidi e disperati a vita. Si calcolano in questo momento più di 60 guerre in corso nel mondo.
C’è guerra nell’Europa dell’Ucraina invasa dall’aggressore russo, nel Medio Oriente dei satrapi locali che tengono in ostaggio intere popolazioni e di uno stato democratico – Israele – che preferisce la forza al diritto, nell’Africa delle decine di guerre e guerricciole (jihadiste, etniche, economiche, razziali, territoriali), nell’Asia dei governi dispotici dove i nemici da eliminare sono le minoranze etniche, religiose, ideologiche e il riarmo generalizzato non annuncia nulla di buono.
Non risolvono più nulla o quasi le guerre. Sono strumenti obsoleti da mettere nella spazzatura della storia perché non solo hanno poche o nulle soluzioni da offrire, ma perché anzi aggravano e incancreniscono situazioni che la trattativa multilaterale potrebbe sempre risolvere, come mostra l’esempio dell’Unione Europea, le cui istituzioni sono state insignite del Premio Nobel per la Pace, per la semplice ragione che mai nei territori che via via sono venuti a farne parte è stato sparato un solo colpo di fucile attraverso le frontiere, anzi queste sono state abolite per consentire l’affratellamento tra i popoli, gli scambi commerciali equi, le collaborazioni economiche sociali e culturali tra i paesi membri. Per questo ieri a Maidan in Kyiv, oggi a Tblisi in Georgia si grida di voler entrare nell’Ue!
Eppure i territori oggi parte della Ue, erano stati per due millenni il regno di Marte, dio della guerra. Oggi da esponenti del suo grande alleato, gli Stati Uniti, l’Ue viene definita Venere, quasi fosse dedita al culto della dea greco-romana dell’amore.
Sotto questo profilo, l’Ue è una best practice da additare alle regioni del mondo martirizzate da guerre e dittature (spesso le due cose stanno insieme, condite dal mostruoso egoismo del nazionalismo sovranista che rovina i popoli e le patrie che, convinti dalla retorica dei governanti, gli corrono dietro).
I popoli dovrebbero posare le armi e gettarle nel fuoco per trasformarle in aratri che dissodino la terra; e attrezzi che ricostruiscano le case abbattute dalle bombe. E dovrebbero spingere i loro governanti a sedersi a un tavolo multilaterale dove concordare patti vantaggiosi per tutte le parti in causa.
Non vi è altra scelta: o il regionalismo cooperativo, o la guerra tra le nazioni! Basta con i nazionalismi, basta con le guerre di aggressione che costringono i popoli aggrediti a resistere, a difendere la loro casa e il diritto internazionale uccidendo e morendo anche nella giusta e doverosa guerra di resistenza. Ancora con Cicerone: CEDANT ARMA TOGAE, che le armi cedano il passo al diritto e alla giustizia.
E basta anche con lo sfruttamento del grande sul piccolo, dell’accumulazione ingiusta e dannosa di grandi fortune in poche mani, quando ancora miliardi di esseri umani non sanno come arrivare alla sera, come crescere i figli, come garantirsi una serena esistenza, e una decorosa vecchiaia semmai l’avranno.
La polarizzazione della ricchezza in poche mani e il contestuale espandersi di diseguaglianza e povertà, hanno raggiunto livelli di preoccupante irrazionalità economica, sintetizzabile nel dato che attribuisce più della metà della ricchezza globale all’1% della popolazione mondiale. Gli effetti di un meccanismo apparentemente inarrestabile, porta ricchezze enormi in pochissime famiglie speculative, sottraendo consumi e investimenti alla stragrande maggioranza dell’umanità, con ciò rendendo il capitalismo attuale, improponibile come modello universale.
I danni si vedono anche in territori abbastanza omogenei come l’Europa dove si vanno creando distanze difficilmente sanabili: il lussemburghese medio gode oggi un reddito che è, secondo Banca Mondiale, trenta volte quello di un moldavo medio. E immaginiamo cosa sarà del livello di vita ucraino alla fine della guerra di aggressione russa!
La britannica Oxfam ci informa che le 80 più ricche famiglie al mondo detengono più ricchezza del 50% più povero dell’umanità: in 80 hanno tanta ricchezza quanto 4 miliardi. Direte: cosa risaputa da anni, i governi nel frattempo avranno messo mano a riforme di redistribuzione. No invece. Sempre Oxfam ci ha detto, a gennaio a Davos, che gli anni di pandemia (2020-2022) sono stati eccellenti occasioni per alimentare come non mai la bulimia dei troppo ricchi: l’1% più ricco della popolazione mondiale ha incamerato almeno due terzi di tutta la nuova ricchezza formatasi, equivalente a quasi il doppio del denaro andato al residuo 99% della popolazione mondiale.
Come visto con il caso moldavo, è problema anche europeo. Eurobarometro ha appena pubblicato un’inchiesta su ineguaglianze, equità, mobilità inter-generazionale: meno della metà dei cittadini della Ue ritiene che la nostra società sia equa ed eguale. La vasta maggioranza chiede politiche sociali più forti. Il “Gruppo di alto livello sul futuro della protezione sociale e del welfare state nell’Ue”, presieduto da Anna Diamantopoulou, ha appena presentato il suo rapporto: ha ben 21 raccomandazioni per migliorare la protezione sociale e il welfare state in sei aree. Speriamo sia la volta buona per far riprendere all’Unione Europea la sua natura iniziale di “economia sociale di mercato”.
Guardando alla struttura degli affari internazionali nel terzo decennio del XXI secolo, si ha la sensazione che la maggior parte degli stati si ritrovi, per seri errori di prospettiva commessi nel periodo che ci separa dalla fine del regime sovietico, di fronte al bivio esistenziale. Da un lato il percorso che porterebbe a restituire razionalità al sistema internazionale. Dall’altro quello che potrebbe condurre gli stati a veder deperire il ruolo che la modernità, dalla fine dell’assolutismo europeo, ha loro assegnato.
Paradossalmente il secondo percorso potrebbe essere imboccato a causa della pretesa degli stati al protagonismo ipertrofico, attraverso il recupero di due fattori che nella storia hanno sempre giocato contro di loro causandone, nel lungo periodo, l’indebolimento se non l’irrilevanza. Questi fattori sono il nazionalismo proteso all’egemonia con il rifiuto alla collaborazione con altri stati in fori multilaterali istituzionalizzati, e la forma di governo autoritaria o peggio dispotica sostenuta da corruzione e interessi economici perversi. I due fattori, combinati o in solitario, generano le situazioni definibili come “diplomazia dell’arroganza”: gli stati abbandonano i percorsi del dialogo e della trattativa, in particolare nei fori multilaterali, e adottano quelli della minaccia sino all’aggressione armata. In alleanza con i gruppi di potere economico e finanziario che li sostengono e li foraggiano, promuovono l’arricchimento di chi ha già troppo contro gli interessi di chi ha troppo poco.
È anche questa perversione del ruolo degli stati che spiega i gravi rischi per la sopravvivenza stessa del pianeta così come lo abbiamo conosciuto, inclusa la partita sul contributo umano al riscaldamento globale, che gli stati annunciano di voler giocare, ma poi non giocano.
In un sistema internazionale teoricamente votato alla decarbonizzazione e più in generale alla pulizia dell’aria e delle acque non si fa una guerra sporca come quella in corso in Europa che è anche una catastrofe ambientale che sta cancellando anni e anni di impegno di tanti soggetti pubblici e privati. Proviamo solo a immaginare quale impatto avranno le continue esplosioni, l’uso gigantesco di munizioni e proiettili (i frammenti metallici delle granate contengono ghisa mista ad acciaio il che significa ferro e carbonio ma anche zolfo e rame), le polveri sottili e l’anidride carbonica che salgono verso l’atmosfera, l’avvelenamento dei fiumi e dei laghi ad opera di metalli e combustibili. Il tutto in un paese agricolo, che esporta grano in tutto il mondo. Proviamo a immaginare quale grano sarà quest’anno quel grano!
E chi può seriamente dire quali saranno gli effetti finali dell’occupazione da parte delle truppe russe delle centrali nucleari ucraine, e dei bombardamenti sui siti industriali (rilascio di ossidi di zolfo e di azoto ovvero piogge acide)? Circa un terzo delle foreste ucraine (3 milioni di ettari) è distrutto e danneggiato, il 20% delle aree protette risulta manomesso, più di 10 parchi naturali, 8 riserve naturali e 2 riserve di biosfera si sono ritrovate sotto occupazione, 450 mila ettari sono in zone occupate o interessate dai combattimenti.
Se davvero vogliamo militare per un nuovo umanesimo in Europa, che sia il primo tassello di un mondo tutto dalla parte dell’essere umano, dobbiamo capire che dobbiamo operare per trasformare la politica e l’economia, responsabili della condizione per certi versi tragica nella quale versa l’uomo. È tempo che la cultura, le religioni, le idee tornino a condizionare lo spadroneggiamento dei troppo potenti e dei troppo ricchi, per condurli verso quell’umanesimo integrale che Jacques Maritain indicò come obiettivo novant’anni fa agli studenti dell’università di Santander.
Se gli stati e le imprese, oggi per lo più inadempienti rispetto ai loro doveri verso l’uomo, saranno costretti a ripensare il loro ruolo dalla pressione delle persone e associazioni libere, con senso etico e religioso della vita, le grandi risorse del nostro tempo – pensiamo alla nuova energia, pensiamo al flusso continuo delle nuove tecnologie e della scienza – saranno messe non al servizio del potere politico ed economico, ma dell’essere umano, tornato finalmente fine, non più utilizzato come un mezzo.
I lavori della Giornata inizieranno alle ore 10. E’ prevista la pausa pranzo, dalle 13:30 alle 15, presso T-BONE STATION (www.t-bone.it), previa prenotazione via email: convegno10Marzo2023@gmail.com
Giornata di studio e riflessione su “Un Nuovo Umanesimo in Europa”
Sala Capitolare presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva
Piazza della Minerva, 38
Roma
Venerdì, 10 marzo si terrà, a Roma, la conferenza “Un Nuovo Umanesimo in Europa”, su iniziativa del Senatore Mario Occhiuto e organizzata in collaborazione con le Associazioni “Italia Romania Futuro Insieme” e “Human 4 Human” Association. L’evento vedrà la partecipazione di importanti pensatori, studiosi, artisti e attivisti italiani, romeni, ucraini, turchi, palestinesi, russi, moldavi, bulgari e africani.
La conferenza nasce con l’obiettivo di riflettere sulle sfide che l’Europa deve affrontare in un’epoca di cambiamento profondo e di incertezza. L’umanesimo, inteso come filosofia e come stile di vita che mette al centro la dignità umana, può offrire un importante contributo per affrontare questi problemi e costruire una società più giusta, solidale e creativa. Durante la conferenza, verranno affrontati diversi temi…
Su iniziativa del Senatore Mario Occhiuto, IRFI – Italia Romania Futuro Insieme in collaborazione con Human4Human Association, organizzano la
Giornata di studi e riflessione su un “Nuovo Umanesimo in Europa”
Roma, 10 marzo 2023, ore 10 – 19
Sala Capitolare presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva
Piazza della Minerva, 38 – 00186 Roma
La Giornata interdisciplinare è dedicata al confronto tra intellettuali, studiosi, artisti, scrittori e membri della società civile internazionale, per il ripristino dei valori fondanti dell’Europa, in cui si ritrovino e valorizzino le radici giudaico-cristiane che ne costituiscono l’essenza storica, giuridica e morale. Con contributi dalle scienze, l’arte, la cultura, la comunicazione: storiche, relazioni internazionali, economiche, sociali ed umane etc. Al fine di rimettere al centro della politica – quale “forma più alta di carità” – il futuro della Patria europea comune. Interverranno personalità italiane, romene, bulgare, ceche, slovacche, moldave, ucraine, russe, bosniache, turche, africane.
N.B. “Le opinioni e i contenuti espressi nell’ambito dell’iniziativa sono nell’esclusiva responsabilità di chi li esprime”.
“L’accesso alla sala è consentito con abbigliamento consono e, per gli uomini, obbligo di giacca e cravatta.
“I giornalisti, i fotoreporter (comunicando nome, cognome, luogo e data di nascita, testata giornalistica e numero di tessera dell’Ordine) e gli ospiti devono accreditarsi scrivendo a: convegno10marzo2023@gmail.com